Ho sempre considerato la discriminazione un’ingiustizia inaccettabile, verso la quale era impossibile per me rimanere in silenzio o voltare lo sguardo altrove. Nella scelta di lavorare nel settore del sociale, che mi ha portato a conoscere e svolgere il tirocinio in una realtà come Cambalache, indubbiamente la curiosità per le culture straniere ha giocato un ruolo importante, ma non è tutto.
Tra i miei principi c’è sempre stato quello della non classificazione: non mi è mai piaciuto creare delle categorie, tanto meno se legate a caratteri somatici esterni, che con il modo di pensare e di comportarsi poco hanno a che fare. Ho scelto questa opportunità di tirocinio perché vorrei svolgere un lavoro che mi permetta di vedere i risultati di un cambiamento che, se anche minimo e non per tutti, è possibile: un percorso su cui valga la pena investire delle energie.
Credo di aver ottenuto delle grandi soddisfazioni, concrete e visibili, soprattutto grazie alle opportunità lavorative e sociali create dai progetti di Cambalache e che sono andate a buon fine.
In tutto questo ho dovuto confrontarmi anche con il fattore emotivo e la giusta distanza da mantenere con i beneficiari, elementi che l’educatore deve sempre tenere in considerazione. Quando è capitato che alle persone coinvolte nei progetti venissero offerte delle opportunità e queste non le hanno sapute cogliere – forse per la paura di fallire che impedisce di mettersi in gioco su un terreno poco conosciuto, o forse perché è più facile vivere lavorando in nero – spesso mi sono saliti rabbia e disappunto verso un comportamento ai miei occhi sciocco e incoerente. Ma ho capito che arrabbiarsi non serve, bisogna solo limitarsi a offrire aiuto, senza proporsi in modo coercitivo, proprio perché la scelta ultima deve essere della persona. Non ci si può opporre e imporre, è la persona che deve scegliere di farsi aiutare e quindi predisporsi a mettere di nuovo in campo se stessa o se stesso. Probabilmente se si costringesse la persona a fare quell’esperienza proposta, essa non andrebbe comunque a buon fine.
Spesso quando mi scontro con questo limite mi vengono in mente le prime righe de “La Preghiera della Serenità”, di origini dibattute, si dice scritta dal pastore protestante Reinhold Niebuhr, ma adottata anche dal cristianesimo, spesso attribuita a San Francesco, accettata dai Domenicani e professata in molte altre culture. Essa dice:
Signore, concedimi la serenità per accettare le cose che non posso cambiare,
il coraggio per cambiare le cose che posso cambiare,
e la saggezza per conoscerne la differenza
L’esperienza iniziata con Cambalache come tirocinante, e che sto proseguendo come collaboratrice, mi ha insegnato tantissimo, su più fronti. Ho imparato il valore dell’ascolto attivo, vero, sia nei confronti dei ragazzi che ho conosciuto, sia nei confronti delle mie colleghe, ascoltando e guardando come si muovono nelle situazioni nuove e complesse.
Ho inoltre avuto davvero la sensazione che il mio intervento possa essere concretamente efficace nel migliorare la vita delle persone, percependole come volenterose di mettersi in gioco e desiderose di una seconda opportunità nel nostro Paese: un futuro possibile, che parta dalla loro completa integrazione sociale e lavorativa.
Durante la lezione conclusiva del laboratorio di Drive Me Crazy, alcuni ragazzi molto grati dell’aiuto che abbiamo dato loro, per sdebitarsi, ci hanno promesso, come è usuale nella loro cultura, di invitarci a cena a casa loro. Io e la mia collega, scherzando, gli abbiamo chiesto che cosa ci avrebbero cucinato e uno ha risposto: “Ma ovviamente lasagne al pesto!”. Questa frase, un po’ innocente, dice davvero tanto, lancia un messaggio che dobbiamo afferrare: “Mi piacciono la vostra cultura e la vostra cucina, in fondo siamo tutti vicini”.
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