Le arti sono portatrici di un linguaggio arricchito dalla propria cultura di provenienza ma che è in grado di oltrepassare i confini del bagaglio personale, un linguaggio che facilita l’interculturalità e tende all’universalità.
Lo spiega così – il valore dell’arte – Carola Carrea, illustratrice e conduttrice del laboratorio di disegno arti espressive per il progetto Skill Me UP!, dedicato a rifugiati e richiedenti asilo con vulnerabilità psicologica, sostenuto dalla Fondazione SociAL. L’ultimo della lunga serie di percorsi di riabilitazione psicosociale supervisionato dall’equipe multidisciplinare creata ad hoc da Cambalache per il progetto e che hanno impegnato l’intera stagione invernale e primaverile, per arrivare fino al termine di giugno.
“Ognuno dei ragazzi che ha preso parte al laboratorio portava con sé un bagaglio dettato dalla propria cultura, dalla propria storia, ma mettersi in gioco ha permesso loro di andare oltre, di creare un ponte. L’arte da questo punto di vista non è mai abbandono, ma sempre arricchimento. La necessità individuale o di rottura permette di andare al di là della cultura di provenienza e questo facilita decisamente lo scambio”, spiega ancora Carrea che ha partecipato al progetto grazie alla collaborazione con l’associazione di volontariato Il Tiretto.
La struttura del laboratorio ha dato priorità alla creazione di lavori che potessero lasciare spazio all’espressività personale, al racconto delle emozioni. Non sono state comunque trascurate alcune nozioni tecniche di base, come il disegno dal vero o la teoria del colore, anche per garantire la possibilità di esercizio o confronto a chi avesse già determinate competenze.
Molto spazio anche al lavoro corale, per creare opere di gruppo che potessero avere un’anima narrativa. “Abbiamo lavorato su fogli di grandi dimensioni, unendo diverse tecniche, lavorando ad esempio sulla gradualità dei colori per dar vita a uno sfondo colorato sopra al quale abbiamo realizzato un arcobaleno di mani, da imprimere con il gesto”. E dopo l’arcobaleno, l’albero della fratellanza, in cui le foglie erano ancora mani dei partecipanti impresse sul foglio. “Ho notato un grande coinvolgimento e un ragazzo ha anche realizzato un’opera singola, un fiore, utilizzando proprio il colore in questo modo, con le mani, trovando così una possibilità di esprimersi diretta e di forte impatto”.
Per qualcuno è stato più facile lasciarsi andare, per altri meno. C’era chi dimostrava un istinto più marcato per il disegno figurativo, chi aveva maggiore propensione all’astratto, nella pura espressione del colore. Chi – anche in base al proprio carattere – era più sciolto e in grado di socializzare facilmente, chi più chiuso. “Tutti i partecipanti – conclude Carrea – avevano le proprie reti affettive da ricostruire, ma anche da mantenere e da proteggere. Per questo ho preferito lasciare spazio all’espressività rispetto alla tecnica”.
E nasce così, da un foglio, dai colori, da un lavoro collettivo, l’opportunità di tradurre in un linguaggio non verbale ciò che può essere difficile o doloroso esprimere a parole. Per ritrovarsi, per dialogare, per riconoscersi.