I sapori di casa costituiscono per gli emigranti una pregnante eredità culturale e agiscono a livello personale, quasi intimo, per alimentare il ricordo ed attutire l’inesorabile cambiamento dell’esistenza in atto.
Sabato 28 marzo: “Indovina chi viene a cena?”nelle case dei richiedenti asilo e titolari di protezione internazionale dell’APS Cambalache. Ti aspettiamo!
<<Tra il 1876 e il 1915 – l’arco di tempo con cui generalmente si identifica la Grande emigrazione – espatriarono circa 14 milioni di italiani. Molti si diressero verso paesi del continente europeo, in particolare la Francia, numerosissimi altri si imbarcarono per raggiungere le Americhe con l’intenzione iniziale di tornare in Patria. Qualcuno, già alla fine dell’Ottocento, attraverserà l’Oceano tre, quattro, dieci volte, ma per molti altri l’emigrazione si trasformò presto in un trapianto definitivo nei paesi d’oltreoceano.
Il bagaglio culturale dell’emigrante, inteso come memoria sociale, è costituito da rappresentazioni mentali, abitudini, pratiche linguistiche, ma anche da un carico tangibile altrettanto pesante e ingombrante di oggetti sociali: tra questi, i cibi di casa non riempiono solo le valigie dei passeggeri di terza classe, ma occupano intere stive di navi. Il cibo è per alcuni, già durante il viaggio verso le terre di accoglienza, una sorta di unità di misura, un parametro per calcolare l’allontanamento: nella sua memoria autobiografica, Emanuele Vittorio Benvenuto descrive il viaggio da Genova a La Paz (Bolivia) intrapreso nel 1926 a bordo del piroscafo “Bologna”, annota tutte le tappe della traversata, esprime valutazioni sulle locande e sul cibo che consuma nelle varie località di approdo: e più si allontana da casa, più le pietanze locali diventano per lui immangiabili, cucinate in modo incomprensibile. Così come sempre più incomprensibili e incivili gli appaiono gli abitanti. Non a caso forse, dopo varie peripezie lavorative in una miniera, in un panificio e come insegnante di pianoforte presso il Consolato italiano, Benvenuto rileverà una trattoria boliviana e la trasformerà in una trattoria di piatti tipici italiani prima di ritornare a Genova agli inizi degli anni ’30, dopo un’esperienza sudamericana tutto sommato fallimentare[1].
I sapori di casa costituiscono per gli emigranti una pregnante eredità culturale e agiscono a livello personale, quasi intimo, per alimentare il ricordo ed attutire l’inesorabile cambiamento dell’esistenza in atto: ricevere e consumare prodotti in arrivo dall’Italia come olio, castagne, formaggio, funghi, olive e vino consente di riannodare il legame con la comunità d’origine e tamponare l’emorragia d’identità soggettiva e sociale…Alle catene migratorie degli individui che partono alla volta della “Merica” si allacciano così catene di sapori che contribuiscono a legare Vecchio e Nuovo Mondo[2].>>
[1] Diario di viaggio di un emigrante, tesi di laurea di Lara Egeo, Università di Genova, 2005.
[2] Il viaggio dei sapori. Il cibo nelle lettere degli emigranti in America, Caffarena Fabio (Università di Genova)
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